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“Si può uccidere tutto meno la nostalgia, la portiamo nel colore degli occhi, in ogni amore, in tutto ciò che profondamente tormenta e libera e inganna.” J.C.
È talmente entrata nel nostro consueto divenire, questa parola, da portarci a ritenerla epica, antica, leggendaria.
Nasce invece dall’intuizione di uno studente di medicina di Basilea, Johannes Hofer, che nel 1678 cercava un vocabolo in grado di definire una nuova malattia che si aggirava per Europa. Decise così di combinare la parola greca Algos (dolore) con Nostos, questa sì usata dai poeti antichi per indicare il “ritorno a casa”.
Nostalgia è quel viaggio alle radici che non ci è dato di fare. Non c’è più il posto da dove sono partito (nel frattempo è cambiato), non c’è più il corpo, lo sguardo, quell’alito che continua a incendiare i miei ricordi. E non ci sono io, che ho mutato pelle mille volte, spesso senza accorgermi.
Di questo parla questo libro. O vorrebbe farlo.
Si tratta di una raccolta di testi scritti, la maggior parte, sui treni o aeroporti o sale d’attesa (non mi riesce di scrivere seduto a una scrivania), e che girano – me ne accorgo mentre lo sfoglio – tutti intorno a questo tema.
In alcuni di questi versi persino le lingue, quelle che mi sono famigliari, sembrano ingarbugliare i passi, confuse, come se non sapessero da dove vengono né dove stanno andando.
Mi sono sempre ritenuto un innamorato della poesia. Della poesia degli altri.
Queste mie continuano a dirmi cose, a pormi domande, a spingermi ad andare, chissàdove, in cerca di chissàché.
Non mi danno risposte – forse non era questo il loro compito – ma so che hanno cadenzato i momenti più veri della mia vita “altrove”.
In questa benedetta lingua italiana con la quale intrattengo la più lunga storia d’amore (non sempre corrisposta) da quando sono arrivato al mondo.
Le sue trappole. I suoi tranelli. Le sue parole…
Le migliori compagne di viaggio che avrei potuto augurarmi. (M.F.)
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